La storia di “Sabina”, donna (che verrebbe spontaneo definire “ragazza”, per la freschezza della sua voce e la sua vivacità espressiva) costretta a mettere all’angolo un grande amore della sua vita. Per amore di sua figlia. Protetta da pseudonimo, mi ha raccontato palmo a palmo la sua vita con “Alex” e le sue scelte coraggiose (esemplari) di mamma: uscita dai tentacoli di quella che all’inizio sembrava una favola, adrenalinica e romantica, e che poi ha rovinato la sua vita e rischiato di compromettere per sempre anche quella della sua bambina. La sua testimonianza, di cui la ringrazio tanto, sarà pubblicata dalla rubrica “Nel Cuore di Roma”, sul blog del Corriere della Sera.

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«Mio figlio e io siamo una famiglia monogenitoriale,» racconta Sabina. Romana,  42 anni, il sorriso stropicciato dal dolore, ma vivo e deciso.

Erica, la sua bambina, ha bussato alla vita senza avvisare, e lei ha saputo di essere incinta al quarto mese di gravidanza: «Sottopeso e senza soliti sintomi – dice Sabina – , non ho mai sospettato nulla. Dopo aver guardato sbigottita le due strisce rosa del test, ho sentito fortemente che questo figlio volevo metterlo al mondo. Lui, dopo aver saputo del nascituro, è impazzito di gioia. Sembrava più deciso a star bene. Abbiamo scelto di mettere su famiglia».

Sabina e Alex si erano innamorati a dispetto di tutto. Un tenero tenebroso, lui, appena uscito da una comunità terapeutica e ancor prima, addirittura, dal carcere. Quella sintesi di forza e fragilità che cattura le donne, ispira una personalità che mette in salvo la persona amata ma, cosa ancor più irresistibile, ha bisogno di protezione a sua volta. Alex però è di una gelosia patologica: «Faceva gli interrogatori di chi ha già la risposta in tasca – continua Sabina – : si ostinava a non capire perché avessi bisogno di vedere amici ventennali; ”non ti basto io? Allora non mi ami!” Man mano mi sono preclusa feste, inviti, cinema, solo per non innescare scenate».

Sabina sopporta e subisce, premiata da un periodo idilliaco; poi il tunnel. Perché Alex riprende a drogarsi.

«Disperazione, delusione, senso di impotenza si impadroniscono di me.  Gli prometto: ”ti sto accanto finché non ne esci”» ricorda Sabina. «Per mesi l’ho sostenuto moralmente, a volte fisicamente durante qualche bruttissima crisi. Durante crisi depressive avevo il terrore che si suicidasse, lo chiamavo più volte al giorno, lo sostenevo, facevo appello a tutta la mia forza e voglia di farcela. Alla fine ha deciso di affidarsi a un s.e.r.t. – spiega ancora Sabina – ma, quando si è ripreso,  sono stata io a decidere di fare una pausa di riflessione. Ed è stato allora che ho scoperto di aspettare un bambino».

Sembra una svolta, perché la gravidanza dà ad Alex la forza che non pensava di avere. Lo illude di poter rifondare se stesso per l’amore che la sua donna custodisce nel grembo. Commozione, energia, felicità.

«Continuo a lavorare fino all’ottavo mese, e tutto va per il meglio» ricorda Sabina. «Prego sempre per la protezione del bambino e per avere un parto che sia un’esperienza bella, serena, calma, indolore.  È stato proprio così». La bimba, sana e amatissima, diventa il centro delle sue cure e la ragione per cui qualunque sacrificio sembra piccola cosa. Poi, di nuovo, il “non ritorno”. «Compiuti i due mesi di Erica, ricominciano i problemi del mio ex compagno: incidenti stradali, nervosismo, pessimismo cosmico, sbalzi d’umore, dimagrimento.  Lui era sempre più assente,  fisicamente e affettivamente. Non parlava, accusava me di essere distante; era sempre più agitato, nervoso, cupo. Depresso. Inizia una serie infinita di bugie, sparizioni chissà dove. Così mi ritrovo ad avere paura, a osservare un improvviso sconosciuto. Non mi sento sostenuta, protetta, amata in una fase così delicata (i primi mesi di vita della bambina). Cosa di cui comunque sento la responsabilità al 100% a prescindere».

Sola e spaventata, Sabina si rimbocca le maniche. Prolunga il periodo di maternità a lavoro: terrorizzata dall’umore imprevedibile del compagno, non lascia mai Erica da sola con lui.

«In vestaglia alle 4 del mattino, suonavo ai vicini affinché mi prestassero il telefono per chiamarlo, dato che i soldi non c’erano mai e ci avevano staccato il telefono. Finché in estate Alex si presenta sotto il mio ufficio completamente “fuori” ed io finalmente vedo, capisco e decido: scappo di casa con mia figlia. Mi rifugio dai miei in Sicilia, passando un periodo di minacce, insulti, interventi di polizia, carabinieri, diffide. E il rapporto con i miei che improvvisamente vacilla: mi danno carico di tutto ciò che stavo vivendo, che non avrei mai dovuto… bla bla…».

Alex si ingentilisce improvvisamente e per qualche mese vede la bambina quasi ogni giorno, segue una terapia in comunità terapeutica. Ma la droga lo cattura per l’ennesima volta. «Il ragazzo che avevo amato non c’era più. Nemmeno in fondo a quegli occhi celesti e disperati, soli e piccini e tanto egoisti; gli volevo bene, ma non potevo fare nulla per lui, che si stava uccidendo lentamente e non riusciva a essere assiduo nelle visite alla figlia. Intanto Erica chiedeva di lui. E io ero divisa tra il dispiacere  e la rabbia nei suoi confronti, l’amore per mia figlia, il senso di fallimento. Un pomeriggio al telefono mi tratta malissimo, insultandomi e denigrandomi. Quella sera Erica, triste, mi chiede del papà: il mio cuore frana. Ma è allora che decido».

Sabina sceglie che vita vivere e insegnare a sua figlia. Sola, non più in balia di aggressioni morali e un ricatto sottile e dilaniante. «La vita è gioia, una meraviglia da scoprire e rispettare», si dice Sabina. «Ho dovuto trasformare velocemente la mia delusione e la solitudine (che ogni tanto riemergono) senza farle pesare a mia figlia. Così è stato, così è, così sarà».

Un’udienza per l’affidamento di Erica a Sabina non è stata ancora fissata: alcune delle accuse a carico di Alex (piuttosto importanti) sono state escluse da questo suo racconto. Non c’è più rabbia né tantomeno sentimenti di vendetta, spiega, come invece si è sentita dire da Alex. Scendere dalla giostra vertiginosa di cui, innamorata, era stata prigioniera e della quale, da mamma, aveva sentito la dipendenza, è una scelta che scivola dritta negli occhi di Erica. Sostiene più volte che il rispetto e la dignità di chi tira su un bambino possono essergli molto più preziosi di una “famiglia unita”, se la famiglia non è quella giusta. «Più che una mamma mi sento un artigiano,» dice oggi.  Il sorriso stretto sulle labbra, l’attesa di una sentenza, e i giocattoli di Erica sottobraccio.

http://vociromane.corriere.it/2013/10/23/storia-di-sabina-mamma-coraggiosa/