La mia intervista a Lorenzo Vargas: il giovane “talent” di Masterpiece
Simonetta Caminiti
Pubblicato il aprile 23, 2014

Lorenzo Vargas è uno che non le manda a dire… né tantomeno a scrivere. Scrivere, poi, gli viene così bene che potrebbe farlo estemporaneamente, con telecamere sgranate addosso e un gong, insindacabile, in agguato. Con le parole che scorrono su uno schermo HD mentre le sta digitando, e tre giudici che confessano apprezzamenti o perplessità in tempo reale, alle orecchie di Mamma Rai. Vargas lo ha fatto, tutto questo. A Masterpiece, il dibattuto, super social, “talent letterario” di Rai3, dove si è conquistato la finalissima, e la pubblicazione del suo romanzo (Pierre non esiste) per Bompiani.
Un partenopeo dagli occhi e i capelli nordici, un ventiduenne dal sarcasmo maturo e (non poco) fendente. Secondo me, un fenomeno letterario in nuce. Superstite della carneficina più raffinata della tv – questo, a mio giudizio, è stato Masterpiece – ecco cosa mi racconta sul “ponte” tra lo show televisivo e le librerie italiane.

Quando hai capito di essere uno scrittore?
«Non l’ho ancora capito. Non credo sia una cosa che si capisce.
Ho compreso che mi piacesse scrivere quando ho cominciato a farlo. Ho avuto una vaga percezione di competenza quando, lette le mie cose a distanza di tempo, continuavano a sembrarmi buone (benché sempre migliorabili).
Adesso che mi pubblicano posso dire di essere stato nominato scrittore.
Quella dello scrittore è una legittimazione che viene da fuori. Prima, per quanto si possa essere bravi, si è ancora solo Uno-che-scrive.»
Hai detto che una trasmissione come Masterpiece, su una persona “un po’ più fragile di te”, avrebbe potuto avere un impatto doloroso, forse – immagino – scoraggiante fino al de profundis della voglia di scrivere. Mai provato niente del genere tu, in quel clima?
«Niente di relativo alla scrittura.
Era un ambiente di competizione, è vero, ma per via di una mia certa mancanza di organizzazione sono abituato ad avere a che fare con immense moli di lavoro in tempi brevi e questo mi ha fatto pesare di meno le condizioni del programma.
Per il resto, l’ho sempre ripetuto, eravamo lì, con vitto e alloggio spesato, in una bella zona, con abbastanza tempo libero a disposizione (è vero che il lavoro è stato tanto, ma si è studiato per le prove come si è andati al cinema e non voglio nemmeno contabilizzare il tempo perso insieme a Trucco a vedere le bancarelle dei libri). L’unica cosa che ci chiedevano era scrivere e sopportare quei due-tre siparietti relativi al programma.
Mi è sembrato uno scambio equo.»
Sincero come sempre sei: quando hai saputo di questo “talent letterario”, cos’hai immaginato? E cosa, di ciò che avevi immaginato, si è rivelato puntuale e giusto? Cosa, invece, sorprendente?
«La mia adesione e presenza al programma è stata connotata da quell’atteggiamento di chi non ha studiato e si presenta ad un esame: “Tanto non si muore”.
Mi aveva avvisato nonna di aver visto il bando, per scherzo ho risposto alla chiamata (per altro con un questionario che veramente c’era da prendermi a pugni) e per scherzo mi sono presentato a provini ed audizioni. Le mie aspettative si fermavano ad un modulo compilato a vuoto.
Mo’ mi pubblica Bompiani. Direi che non troppo mi posso lamentare.
Unica cosa, non credevo avrei avuto tanto successo tra il pubblico. Certo, c’è una cerchia di gente che (per motivi che non del tutto comprendo) mi vorrebbe affogare ogni volta che mi vede, ma la stragrande maggioranza s’è dispiaciuta quasi più di me quando mi hanno eliminato in finale.
Tutta questa stima non fa altro che accrescere la mostruosa ansia da prestazione riguardo al romanzo di prossima uscita, qualora non ne avessi già abbastanza.»
Quanti anni avevi quando hai iniziato la stesura del tuo Pierre non esiste? Hai detto di aver svolto molto editing (personale) su questo testo: per quanto tempo ti ha accompagnato Pierre?
«E’ stato scritto, mi pare, tra il primo ed il secondo anno di Università. Poi mandato a case editrici, alla prima edizione de La Giara, ignorato un po’ da tutti. S’è tentata la prima opera di pubblicazione via Crowdfunding in Italia per un romanzo e ci è pure riusciti. Poi è arrivato Masterpiece e si è dovuto mandare quel progetto a monte.
Sono 4 anni che mi rileggo sto testo, lo maneggio, lo reimpasto, l’ho cominciato anche a detestare, ma ogni volta che lo ripercorro, dalla prima all’ultima pagina, continua a sembrarmi un gran bel libro.
E questo mi basta a sopportare la fatica.»
La persona a cui dedicherai il tuo libro in uscita per Bompiani…
«Non si dice. In realtà pensavo di non dedicarlo propriamente ad una persona. Vedremo.
Ahimé ho scoperto di avere tipo 8 mesi per pensarci.»
L’emozione che ti ha pervaso quando hai saputo che Bompiani avrebbe pubblicato anche il tuo lavoro? E chi è stato il primo a saperlo dopo di te?
«L’hanno saputo per primi Trucco e Bussa, per un mero criterio di prossimità (ci è stato detto insieme). Da quel momento in poi si apre nella mia memoria un momento di confuso yogurt di dati e non saprei sinceramente chi sia stato il primo a ricevere la notizia. Qualcuno tra i miei genitori, la mia ragazza ed il mio migliore amico.
La sensazione me la immaginavo diversa. Ci sono state un paio di ore di fredda razionalità da scassamaròni dove valutavo rischi e possibilità che mi avrebbe aperto la collaborazione, come esordiente, con un editore come Bompiani. Come avrei gestito promozione e presentazioni, possibilità di acquisire contatti e cose così.
Terminato questo grigio momento il mio cervello è andato totalmente a farsi fottere, ho cominciato a saltellare, contento come una pasqua, poi buco di circa 5 ore e dopo mi ricordo solo che ho fatto la valigia alle 4 di notte perché il giorno seguente avevo il treno per casa».
Scrivere con le telecamere addosso e la clessidra che stilla angoscia. Come sai, sono stati questi gli ingredienti più criticati di Masterpiece. Concordi o puntualizzi?
«Non troppo sono d’accordo, ma ognuno ha la propria sensibilità. Per come l’ho vista io, 30 minuti (o 3, per le prove veloci) sono un sacco di tempo. Le telecamere alla fine stanno zitte.
Ovvio, da persona abituata a scrivere nei bar la notte con la gente ubriaca che gli balla attorno, forse non sono il più indicato a parlare di stress da palcoscenico.
Il programma, in ogni caso, ha avuto le sue falle, contenutistiche ed organizzative, ma sicuramente il fatto di avere 30 minuti per scrivere un testo così breve non era tra di esse.
Credo che la pressione per questo tipo di limitazione sia stata sentita da concorrenti che hanno considerato l’intera esperienza con una maggiore serietà di quanto abbia fatto io».
Tra le tue performance nella trasmissione, c’è stato qualche brano/racconto che pensi di sviluppare in futuro? Caratteristica della tua scrittura in studio era, in effetti, creare estemporaneamente testi che sembravano destinati a crescere…
«Probabile. Nel senso, di solito vado avanti immagazzinando idee in testa, quelle sedimentano e piano piano da sessanta idee carine, centotrenta spunti inutili e quattromila idee di merda, vengono partorite tre idee buone.
Scrivo come si distilla un liquore.
Di tutto quello che mi hanno fatto produrre due-tre spunti carini c’erano, tipo la prova (inutilizzata) sulle personalità dissociate o l’altra, dei piedi nell’acqua (inutilizzata, puntata 1).
In particolare sta prendendo bene forma l’abstract di un romanzo che ci hanno chiesto nello scontro con Lilith (puntata 4, scrivi la trama per “Il rivale perfetto“), ma in ogni caso la faccenda è ancora lunga. Prima di quello ci sono almeno altri 2 romanzi da mettere su carta.»