Cronaca di un viaggio stampa ad Amsterdam. #oldies2013
Simonetta Caminiti
Pubblicato il novembre 3, 2014
I musei sono fatti così: le cose raccontano storie, le storie parlano di persone lontane, e il passato sibila attraverso le sue creature. I volti incorruttibili di un dipinto, i baci silenziosi di due piccole sculture. Un cinema muto, nudo, eterno. Ma c’è un museo – in una tra le città più belle d’Europa – in cui questo cinema, adesso, è in 3D. O almeno così sembra, quando scorrazzi tra i suoi quattro piani composti di ben ottanta sale.
Il Rijksmuseum di Amsterdam è stato messo a nuovo, nell’illuminazione, la scorsa primavera. Philips (tutt’altro che una novellina, nel far scintillare i musei) ha congegnato luci diverse per ciascun ambiente, opera per opera, studiando al millimetro la tecnologia che potesse valorizzare il museo. Il risultato è che passato e presente si allineano, i dettagli ti cercano, ti accarezzano, ti pungono. Lance acuminate del Medioevo, trame in bassorilievo su cannoni lucenti. Il viso di Van Gogh che ti morde con gli occhi e ti invita, senza parole, a sfiorare quella barba fulva i cui originali, come figurine, sono sparpagliati in tanti musei del mondo. Ma in nessuno brillano come in questo: non solo perché i Paesi Bassi sono la sua casa di nascita, ma perché l’arte, sotto questa nuova luce, ha tutta un’altra vita. Il Rijksmuseum la custodisce ormai dal mese di aprile, ma i suoi retroscena sono stati spiegati alla stampa un mese fa. Ci vuole una mattinata e qualche ora del pomeriggio, nel centro di Amsterdam, per guardare da vicino la tecnologia LED. Si parte da una panoramica sui diversi approcci e le potenzialità del LED, spiegata da Marja Koopmans, Responsabile Marketing Globale di Philips. Segue un vero e proprio workshop che vorrebbe istruire la stampa sulle funzioni e il design alla base del progetto. A partire dai rudimenti. LED sta per «diodo a emissione luminosa», cioè uno strumento optoelettronico (basato sul dialogo sempre bilaterale tra dominio elettronico e occhio umano) sfruttato per la prima volta nel 1962 dall’americano Nick Holonjack Junior. E se il primo modello fu di un rosso vivo, oggi, i musei sfruttano le sue risorse in bianco. Obiettivo luce naturale, quella del giorno, che – secondo i responsabili delle mostre all’interno del Rijksmuseum – non hanno un corrispettivo artificiale fedele quanto il LED. Un vantaggio convincente è, tra gli altri, la quasi completa assenza di radiazioni di calore e raggi UV nel flusso verso i pezzi d’arte: effetto naturale e preservazione nel tempo. I LED hanno poi vita lunga e la loro manutenzione è molto meno impegnativa dei sistemi alogeni, ancora i più diffusi nei musei.
Facilità di utilizzo che a tutt’oggi sbalordiscono: il personale del museo abbassa i singoli dispositivi di illuminazione utilizzando un iPad. Creando, in un touch, crepuscoli o aurore sui fiori di Van Gogh. Gli studi degli architetti Wilmotte&Associés e Cruz y Ostiz, gomito a gomito con gli esperti del museo e col supporto di Philips, hanno permesso al LED di battere il suo record personale: questa tecnologia, prima di Amsterdam, non aveva mai illuminato una superficie così vasta. Risparmio energetico, colore e contrasto. Il «contrasto» è la componente più dibattuta e spiegata durante il workshop: il gioco che, nei riflettori sull’arte, deve riuscire di più.
Messo a segno il Museo Egizio di Torino, la luce bianca si dispone in grandi anelli sul soffitto (nel salone principale), piccoli lampadari ad hoc, rettangoli semplicissimi, che fanno galleggiare i riflettori su Vermeer, Rembrandt, Goya, e uno sterminato passato di armi e utensili. 7.500 opere d’arte che sembrano aver trovato la terza dimensione, restaurate come un vecchio film, ma a un palmo da noi. Se le nature morte si rendono più simili a una fotografia, antichi abiti di donne, indosso ai manichini, sembrano la scena di un film in alta definizione. Arte e tecnologia hanno matrice comune, d’altro canto. Lo aveva capito pure Van Gogh, con la «Notte Stellata»: il trucco, il miracolo, è un fatto di luce.