L’ “oldie” di oggi è questo mio pezzo dello scorso anno sulla rivista Teatro Contemporaneo e Cinema, di Mario Verdone. Il numero della rivista è interamente dedicato al premio Oscar “La grande bellezza”. La mia è una ricognizione de “La dolce vita”, di cui il film di Paolo Sorrentino è una costola, rediviva dopo più di cinquant’anni, in particolare in merito a ciò che nel 2010, al festival del film di Roma, ascoltai dalla bocca di Martin Scorsese. Martin Scorsese e La dolce vita: riflessioni e letture 50’anni dopo. Quando “La grande bellezza” di Sorrentino rimette in gioco il capolavoro di Fellini.

Simonetta Caminiti
«Povera vita! Povera capitale!». Il grido de L’Avvenire d’Italia (quotidiano cattolico di Bologna) aveva bollato così Federico Fellini e il cast de La Dolce Vita alla sua uscita, nel 1960. Non fu né il primo né l’ultimo. Di questo monumento, cinematografico e storico, oggi più che cinquantenne intonso nell’attualità e nella potenza dei contrasti, parlò a lungo Martin Scorsese. Era il 2010, il Festival del Cinema di Roma aveva riservato il suo intervento al capolavoro di Fellini perché, in quella stagione, la Cineteca di Bologna e il Gruppo Medusa/Mediaset lo avevano appena restaurato.
«In quegli anni – iniziò il Maestro Scorsese in conferenza stampa – alcuni registi cominciavano a infrangere la censura. Ma fino agli inizi degli anni ’60, film come Ben-hur o Spartacus erano considerati “epici” (pensate anche a Il giro del mondo in ottanta giorni); non ci eravamo mai trovati di fronte a un film dell’intelligenza e dell’intensità morale de La Dolce Vita. Certo – proseguì Scorsese –, c’era stato Bergman: ma stavolta la scena commerciale del cinema stava svoltando: con La Dolce Vita giunse il momento cruciale del fellinese». Com’è noto, cioè, il passaggio di Federico Fellini dal neorealismo a una visione più morbida e trasognata (e nel contempo quantomai realistica, trasgressiva) delle storie. Della Storia. Un’edizione della realtà “morbida e trasognata”, appunto, come la figura di Anita Ekberg, che nel film interpretava la diva hollywoodiana Sylvia Rank: a un certo punto, nella calca di cronisti che la assalgono di domande, le viene chiesto: «Trova che il neorealismo sia vivo o morto?»; ed è allora che il personaggio del traduttore simultaneo la imbecca per farle risparmiare tempo, energie, risposte scomode: «Say alive» («Dì che è vivo»).
E così, la storia di Marcello, il cronista di gossip (e non solo) sempre in prima linea col suo Paparazzo, alle prese con l’amore ossessivo della sua Emma, alla ricerca di un amore quasi più arido e smaliziato di lui, e per questo inesaudibile (l’amante Maddalena, o l’enorme e tenera libellula Sylvia, solo di passaggio a Roma); Marcello – illuso che una gabbia d’oro come quella dello scrittore Steiner (che morirà suicida) – sia l’unica redenzione del taedium vitae, finisce naufrago di se stesso. Nel fiore della giovinezza, spende giornate e nottate a godersi gli eccessi di una Roma in pieno boom economico: il miracolo della rinascita a poco più di un decennio dal conflitto mondiale. Un tempo nel quale i mass media s’imponevano per la prima volta come un circuito potentissimo e, allo stesso tempo, un serpente costrictor dall’abbraccio mortale per chiunque non sostenesse il passo della sua serrata, impetuosa superficialità.
«I grandi pittori italiani – disse quel giorno a Roma Scorsese – hanno avuto un percorso simile alla storia del cinema. Fellini portava luci, ombre, e soprattutto un linguaggio tutto nuovo: tre ore ma senza una trama. I suoi cast, il suo modo di trattare gli occhi, o i capelli, degli attori, osava sempre di più: si spingeva ai confini del grottesco. Ha cambiato il mondo». Come? Forse decidendo di raccontarne la dissolutezza e la blasfemia: La Dolce Vita riserva un episodio persino a una spietata parodia dei pastorelli di Fatima.
Per Scorsese, dunque: «C’è un prima e un dopo La Dolce Vita. Se i miei film ne sono stati influenzati? Il senso di continuità è molto importante per le generazioni future. Non sono un fissato della storia, ma la trovo fondamentale. Quando ero agli inizi, e giravo i miei primi corti, erano trascorsi solo trenta-quarant’anni dalla fine del muto. E il cinema italiano è arrivato in Occidente a partire dal ’45. Oggi i giovani hanno un gusto e uno stile diverso, certo, ma i grandi temi sono ancora quelli». L’horror vacui, la paura che sia troppo presto o troppo tardi per riconoscere le occasioni giuste: lo svela il personaggio di Maddalena, troppo abituato a promiscuità e disperazione, per accogliere l’amore di un solo uomo. E lo svela soprattutto Marcello, che sul finale del film si trova salutato dal braccio sottile di Valeria Ciangottini: «l’angioletto», l’aveva definita vedendola per la prima volta, bionda e tutta intrisa, nei suoi quindici anni, di un’inquieta innocenza che lui adesso non riconosce. È ubriaco, stanco, pieno di nulla, fa spallucce e svanisce.
«Il personaggio di Mastroianni – conclude Scorsese – . I suoi occhi alla fine del film, il modo in cui guarda quella ragazza, il suo sguardo pieno d’accettazione. Questa natura tragica che non perdona. Dunque mi accorgo che non è passato poi tanto, da allora». Che sono sentimenti o assenze di sentimento cui l’uomo è destinato allora come oggi, a dispetto di tutto ciò che può permettersi, o alla miserabile ricerca di quello che non può neppure sognare. In una Roma che sempre resta teatro del suo tempo, ma anche un’isola, nei giorni del boom oppure in quelli della recessione, e non ha paura di frustare né di tramortire con la sua bellezza. Anche lei ha una natura tragica, e non perdona, al pari di quella che per Scorsese è la nostra. Nessuno escluso.