Oggi ripropongo un mio post dello scorso mese di febbraio. L’antefatto è un mucchio di insulti a sfondo sessuale sul blog di Beppe Grillo a indirizzo della presidente della Camera Laura Boldrini. Il “fatto” è la potenza letteraria di uno scambio di lettere tra Anais Nin e Henry Miller.
Se sapessero quale dichiarazione d’amore può essere, la voglia di sottomettere sessualmente qualcuno, tutti i «potenziali stupratori» del mondo troverebbero di meglio da fare.
(Sto provocando e facendo amara ironia, s’intende).
Non è che uno debba per forza commentare quel che si commenta da solo, e che moltissimi altri (molto più autorevoli) hanno già commentato. Ma ha ragione chi paragona certifrequentatori del blog di Grillo ai teppistelli del liceo, che infognano con disegni osceni il diario o i muri del bagno, a indirizzo di qualche ragazza fuori dalla loro portata; la libido degli adolescenti rende crudeli, e il loro fallo indomito, fonte di orrende frustrazioni, diviene nelle loro fantasie uno strumento di potere col quale immiseriscono chi li fa soffrire.
Non è un caso che lo stupro sia, a tutt’oggi, un’arma nei paesi in guerra. Ed è terribile che l’aggettivo «potente» serva ancora a connotare l’utilizzo concreto del sesso, in un uomo. Anche sodomizzare il nemico è una scena ricorrente nella violenza verbale, nel linguaggio diffuso; ma, forse, generalmente, non così virile e invogliante quanto abbassare, involgarire, contenere, una donna «potente» di gentile aspetto. (Finché magari non arriva il commentatore più “scaltro” e non decide che quella donna non è di gentile aspetto, per esempio: in tal caso, fine del problema).
Fatalità ha voluto che, proprio in questi giorni, io m’imbattessi in alcune belle lettere d’amore edite Bompiani. Una settimana fa, dopo aver chiuso la bozza del mio piccolo documentario su Anaïs Nin, avevo rivisto il film (dedicato proprio a questa meravigliosa narratrice erotica) Henry and June, che racconta la passione tra Anaïs Nin e lo scrittore Henry Miller. Nel film, a un certo punto Henry (interpretato da Fred Ward) e Anaïs (Maria De Mederos) si dicono cose curiose mentre fanno l’amore. «Voglio insegnarti cose – sospira lui – . Involgartirti un po’. Umiliarti un po’». Magnetizzata da una dichiarazione d’amore (e quella lo era) così perversa, mi sono chiesta se quelle parole avessero abitato anche le lettere originali di Henry ad Anaïs; e la risposta è nel libroAnaïs Nin, Henry Miller – Storia di una passione (Bompiani). Nella lettera che Henry scrisse alla sua amante a Louveciennes (Parigi) il 21 marzo 1932, si legge proprio così:
«Sì, Anaïs, pensavo proprio come fare a tradirti, ma non ci riesco. Voglio te. Voglio spogliarti, involgarirti un tantino, ah, non so quello che dico. […] Voglio possederti, usarti […]. No, non ti apprezzo. Dio me ne guardi! Forse voglio addirittura umiliarti un tantino – ma perché? Perché non mi getto in ginocchio e non mi limito ad adorarti? Non posso. Ti amo in allegria».
La novità non è che, anche in clima di profondo sentimento, sodalizio intellettuale, (come si vede) venerazione culturale,amore, si confessi l’istinto “allegramente” animale di disarmare l’oggetto del desiderio con sconcezze e sozzure. La novità è, tutt’al più, aver scrutato in questi giorni due contesti così diversi dellastessa cosa: la ferocia boscaiola e crudele, ma dai risvolti fragilissimi, che il maschio si è sempre sentito dentro. Finché ti adoro non posso amarti, è il messaggio un po’ scherzoso di Henry Miller. E io voglio amarti, mica adorarti. Se ti adoro, non posso fondermi con te. Non io che sono fatto di questa materia imperfetta, rude, rattrappita, inferiore. Non con te: farfalla bellissima in una teca di cristallo. Devo abbassarti, trascinarti nella prosa e nella terra. Io sono già tuo, ma solo “umiliandoti” potrò sperare di farti mia.
E non è detto che, se il messaggio termina con un “Ti amo”, la bella farfalla non consenta – altrettanto “allegramente” – di infrangerla, quella teca di cristallo. Che non si lasci “umiliare, un tantino”. Che, per amore, solo per amore, non si diverta a vedergli confessare tanto (indicibile) senso di subalternità. E, per una volta (ma giusto perché è Henry Miller), non si giovi, perfino, del potere di annullarlo…