Il mio articolo per IlGiornale.it

jennifer_aniston.jpg.size.xxlarge.promo

Il tappeto rosso tra sogni e incubi. Quel fiume di porpora immobile che, nelle grandi occasioni, ospita i passi altezzosi delle star, è oggi al centro di una polemica: tacciato addirittura di maschilismo. Protagoniste dell’insolito fenomeno, tre attrici del calibro di Julianne Moore, Reese Witherspoon e Jennifer Aniston, che si sono sottratte a un rito – a loro giudizio – tradizionale quanto insopportabile: il cosiddetto «Mani Cam», ovvero un piccolo spazio montato sul red carpet sotto gli occhi accesi e sgranati di macchine fotografiche e telecamere, alle quali le superstar mostrano le loro mani dalle unghie sfavillanti e brandiscono dita e polsi ingioiellati.

Anche le passerelle diventano una routine, un’abitudine senza sapore, un fastidio costellato di paillettes nel quale il biancore perfetto dei sorrisi stride col pensiero di esporre il proprio corpo come fosse un manichino. O almeno questo devono aver pensato Julienne Moore, Reese Witherspoon e Jennifer Aniston quando, agli scorsi Screen Actors Guild Awards, hanno tenuto le mani ben lontane dal «Mani Cam». Occhi bassi e un gentile «No, non posso farlo», un diniego compassato ma autorevole per tutte e tre le attrici, che adesso si vedono coinvolte nel movimento #AskHerMore («Chiedile di più»). La causa #AskHerMore, nata e sviluppatasi su Twitter, osteggia giornalisti e reporter che, durante le passerelle delle star, con le protagoniste dei red carpet a portata di mano, tendono a mettere in risalto aspetti troppo superficiali della situazione, a discapito di domande più personali e pertinenti alla sfera artistica delle pinup.

Il piccolo tappeto rosso sul quale far scorrere dita da regina doveva essere sembrato troppo anche a Giuliana Rancic, che, nel 2012, si era fatta beffe del rituale muovendo le dita come fossero gambe che camminavano sulla stoffa rossa. Ma il meglio doveva ancora venire. Jena Malone fece la linguaccia al Mani Cam. Elisabeth Moss sollevò l’affusolato dito medio. Poi sono arrivate, nella stessa occasione, la Aniston, la Whiterspoon e Julienne Moore, il cui gesto è stato trattato dalla CBS News come «segno di una crescente spinta per la parità tra i sessi anche a Hollywood». The Guardian ha parlato di Hollywood e delle sue abitudini come di «una strana tasca del mondo occidentale dove è ancora considerato del tutto accettabile mettere insieme donne di successo, di grande intelligenza, e ridurle a concorrenti di un concorso di bellezza». In effetti, fossero anche le protagoniste del più premiato kolossal dell’anno, testimonial di cause sociali, madrine di iniziative artistiche importanti e originali, tutto si riduce a pochi attimi in cui la loro passerella (chiamata anche in inglese «catwalk», passeggiata felina, a sottolineare la vanità e il passo ondulato e morbido con cui le star indugiano sul tappeto rosso): come sono vestite, se il copriocchiaie ha funzionato meglio del botulino, qual è stata la griffe peggiore del red carpet. È parte del gioco dacché esiste Hollywood. Ma di dare del maschilista al tappeto rosso, non si era permesso nessuno, finché un giorno, lo scorso anno, Cate Blanchett non ha perso le staffe. Un operatore stava misurando con gli occhi la lunghezza del suo vestito: accovacciandosi in segno di protesta, gli ha chiesto: «Fai queste cose anche con gli uomini?». Poche settimane più tardi, la signora Freeman aveva confessato a The Guardian che la passerella era un posto «stupido, isterico, curiosamente ostile». Un posto nel quale le luci dei flash si affollano su un coro di domande sciocche, dicono i fautori di #AskHerMore. Perché rispondere al volo a una domanda leggera può essere la piccola tassa del successo: ma il confine tra la vanità e il prestigio può essere sottile, vulnerabile, insidioso. Poco maneggevole soprattutto per le donne. Ed è allora che, mani nascoste alle telecamere, sorriso triste e raggelante, possono dire di no.