somewhere_sofia_coppola_2010_11

Era il 2010… e questa era la mia prima recensione sulla rivista accademica fondata da Mario Verdone “Teatro Contemporaneo e Cinema”. Recensione di “Somewhere” di Sofia Coppola.

L’attore Johnny Marco (Stephen Dorff) ha una vita quotidiana apparentemente invidiabile: vive nel più sfarzoso hotel di Los Angeles e ha tutte le donne ai suoi piedi. Un giorno, però, la sua ex compagna, in preda a un esaurimento nervoso, gli affida la piccola Cleo (figlia di entrambi), facendo sì che Johnny si ritrovi tra capo e collo le sue responsabilità di padre.

Sofia Coppola adora gli esercizi tipici del film d’autore: il progredire flemmatico delle scene, la scansione millimetrica dei rituali di una quotidianità nei cui stati d’animo cerca di trascinare lo spettatore. Somewhere naviga così.
Durante un festino (Johnny Marco è un habituè di questo genere di meeting fra artisti, pseudo-artisti e ragazze appariscenti pronte a tutto), il protagonista si frattura il braccio sinistro scivolando dalle scale; i postumi dell’incidente sono un braccio ingessato e qualche giornata a riposo. A intrattenerlo, dunque, ecco due giovani donne del tutto anonime, abbigliate da infermiere ed esperte di lap-dance, che si esibiscono in una danza sensuale di fronte agli occhi assuefatti e intorpiditi dell’attore. E così il secondo giorno, e il terzo. E, proprio mentre la sceneggiatura traspare in tutta la sua carenza di parole e nomi, ci viene svelata la prima traccia di “identità”: la prima immagine dedicata al dolce nome di Cleo, scritto a pennarello sul gesso illibato di Johnny.
Cleo (Elle Fanning) ha undici anni, ma è longilinea ed elegante abbastanza da dimostrarne un paio di più. Il suo sorriso – da cliché, solcato dal filo di un apparecchio – è aggraziato, spontaneo, più eloquente di molti possibili discorsi.
Scopriamo subito che la piccola pattina sul ghiaccio, e assistiamo a una sua performance con la stessa meraviglia del padre Johnny, incantato dalla sua leggerezza e dal suo talento ma del tutto ignaro di questa sua passione.
Il tempo che Johnny Marco trascorrerà con Cleo supera il previsto, proprio perché la madre della bambina ha deciso di partire per un periodo indeterminato. L’attore è costretto a giostrarsi tra il suo stile di vita sregolato, quasi anaffettivo, e le piccole gioie di una paternità lasciata in sospeso, trasferita in una successione di immagini sempre più quieta, silenziosa e raffinata. Successione che esprime il crescendo della complicità fra i due protagonisti.
Il percorso emotivo di Johnny è pregno di omaggi al cinema e allo spettacolo planetario.
Sofia Coppola non lascia niente al caso: a cominciare dall’albergo di Los Angeles, lo Chateau Marmont (qui hanno alloggiato Greta Garbo, e due “icone dionisiache” come James Dean e Marylin Monroe; qui è morto l’attore John Belushi e si è ferito gravemente il cantante Jim Morrison ). Inoltre, in una delle prime scene appare il cammeo Vinicio Del Toro, chiamato per nome – quindi interprete di se stesso – dal “collega” Johnny.
Non è difficile notare l’assonanza dello stesso nome e cognome del personaggio “Johnny Marco” (certo italiano d’origine) col protagonista del film Donnie Darko, incarnazione di un cinema surreale e venerato dai ragazzi di tutto il pianeta.

Ma gli espedienti del “meta-cinema” culminano nel ciak di una importante conferenza stampa, nella quale Johnny riesce a malapena a biascicare qualche parola e mette a nudo anche la fatuità e la meccanica superficiale con cui svolge il suo lavoro, disinformato com’è sui contorni di un film appena girato, e niente affatto in soggezione di fronte alla stampa.
Di lì a qualche scena, sarà il turno dei cammei italiani. Quelli di Laura Chiatti (una giovane attrice che ha avuto una breve relazione con Johnny), Simona Ventura, Nino Frassica, Giorgia Surina e Valeria Marini . Ventura, Frassica e Marini popolano la scena della notte dei Telegatti, alla quale, a Milano, Johnny Marco è stato invitato in qualità di guest-star, con la piccola Cleo al seguito. Il pubblico italiano è ansioso di ritrovare in queste sequenze i vezzi e i “segni particolari” delle sue celebrità e, forse, di riconoscere in una simile scelta (irrisoriamente nazional-popolare) qualche picco più colorito rispetto al trend del film. Il risultato – certamente involontario – è piuttosto una riproduzione tipizzata e posticcia dello spettacolo italiano. Più significativa è la scelta di caratterizzare la trasferta milanese dell’attore con una scorta molto vistosa di polizia, auto lussuose e fan scatenati, in confronto alla desolazione dello scenario statunitense (nel quale il rumore più acuto di una vita da star è quello della sua Ferrari, sull’asfalto grigio e deserto che vediamo all’inizio e alla fine del film). Trasfigurazioni che dipingono tra l’amenità e l’amarezza l’ethos hollywoodiano e quello, meno viziato e assai più cerimonioso, del nostro Paese.
Sono le origini italiane della Coppola e quelle del suo protagonista, dunque, a incorniciare il cuore della storia proprio a Milano, nello sfarzo dell’hotel dove, insonni, Johnny e la piccola Cleo si coccolano davanti al televisore con tanto buon gelato, nella miglior tradizione americana.
Acme della ricerca simbolica impostata per questo film dalla Coppola sarà invece una scena dei due protagonisti in piscina, dove, nei fondali silenziosi, amniotici, Johnny e Cleo paiono comunicare come mai prima d’ora: bramare reciproca intesa ed esaudirla, guardarsi intensamente e comunicare fra sorrisi sordi e muti, quasi dimentichi di quella breve apnea. L’atmosfera cerulea e artificiale di un piccolo mondo a sé.
Il risultato finale sarà – com’è ovvio – la nascita ex novo di una relazione in cui Johnny svestirà i panni del giovane maledetto, e troverà il suo ruolo di uomo adulto, ricondotto al reale dalle lacrime della figlia. Nella solitudine di Cleo, l’attore si specchia per la prima volta e, chissà, per la prima volta ne avverte il peso, la coscienza, la colpa.
Sofia Coppola non fa mistero degli spunti autobiografici inseriti nello script. Invita lo spettatore a un ininterrotto transfert, sfruttando un linguaggio minimale e contenuti spesso prevedibili, ma realizzando nell’insieme un’opera espressiva: delineata con carattere e con indubbio coraggio. La controindicazione è che simili strumenti (la dilatazione del ritmo, la tanta fiducia riposta nel visivo e la povertà del dialogo, nella quantità quanto nel pregio) rasentano a più riprese l’abuso dei propri punti di forza.
Come già per Lost in translation e Marie Antoinette , una porzione della critica vacillerà nel relegare il film nell’alveo della cinefilia incallita, e tenderà piuttosto a ritenere che questa (sessantasettesima) Palma d’Oro di Venezia abbia premiato una storia delicata, popolare. Viceversa, il grande pubblico potrebbe vedere in questo film un codice troppo legato al cinema d’essai.