Un paio di settimane fa, Rai Tre ha trasmesso l’edizione integrale di Nuovo cinema Paradiso. Rivedere il capolavoro di Tornatore mi ha fatto tornare in mente questa mia intervista dell’annata 2009, svoltasi in un bellissimo bar di Roma davanti a un paio di caffè con una pallina di gelato alla crema. Ero al mio primo praticantato – quello da pubblicista – e scrivevo per “In Scena”, un magazine edito soprattutto in Calabria. E lei era una favola…

Agnese_Nano

Era Elena, il grande amore di “Totò”. Il primo amore cinematografico di Giuseppe Tornatore.
E anche in Baaría, in fondo, è facile ritrovare gli echi di quello stesso etereo “imprinting” tra i protagonisti.
Ebbene, l’interprete di una icona romantica rimasta famosa in tutto il mondo era lei, Agnese Nano, che pochi anni dopo il grande successo di Tornatore si dedicò ad esperienze televisive, ancora cinematografiche, e teatrali. Pochi anni fa l’abbiamo vista al fianco di Carlo Verdone, nei panni (un po’scomodi ma molto ben portati) di moglie e madre, ne Il mio miglior nemico.
La trovo fasciata dal jeans praticamente da capo a piedi; i capelli castani raccolti; non un filo di trucco. Gli occhi nocciola, che mi paiono striati di pagliuzze verdi e dorate. Io la ricordavo con gli occhi azzurrissimi, Elena: lei mi spiega che “in effetti il personaggio era stato scritto con gli occhi blu”, e blu diventarono le sue iridi sul set in Sicilia.
La prima cosa che le chiedo, gliela chiedo senza remore. Un pronto tuffo nel passato.

Come nacquero i panni di Elena addosso a te?
«Andiamo lontano lontano lontano nel tempo! Io avevo 21 anni e in realtà pensavo che la mia vita fosse completamente altra: studiavo medicina veterinaria. Avevo già fatto un film, ma questo mi sembrava un mestiere “non serio”, assimilabile perlopiù al gioco… Ero a Perugia all’università, il mio agente mi chiamò dicendomi che aveva letto questa sceneggiatura bellissima e mi disse: “Vieni a Roma, ti vogliono incontrare”».
Dov’è che ti avevano apprezzata?
«Io avevo fatto il primo film di Daniele Luchetti (Domani accadrà). Quindi avevano visto questo film che era stato selezionato per la settimana della critica a Cannes. Per Nuovo Cinema Paradiso cercavano una ragazza che assomigliasse a Valeria Ciangottini (ce l’hai presente? La bimba de La dolce vita…) perché doveva essere lei a fare Elena da grande.
Mi chiamarono la prima volta per la mia somiglianza con Valeria. Al secondo incontro ci convocarono per una giornata intera di provini a Cinecittà. Dovevamo recitare circa… tre scene (ogni coppia doveva provare tre scene). Sì, il provino più lungo della mia vita».
Con Tornatore. Com’era il giovane Tornatore?
«Meraviglioso. Perché è un regista che sa esattamente quello che vuole: spesso i registi, quando non sanno quello che vogliono, ti dirigono in maniera un po’ violenta e invasiva. Lui aveva già una dolcezza incredibile. Già dal primo film (Il camorrista) si capiva bene che era un grande regista: aveva un dono innato, la capacità di “costruire un mondo” attraverso i suoi occhi.
In questo set in Sicilia si aveva l’impressione, almeno a momenti, di fare una cosa bella e grande. Ma una volta finito, il percorso del film fu un po’ strano…
Il fatto di vedere che la critica, la stessa critica, gli stessi identici nomi, possono assumere atteggiamenti così diversi nel corso di poco tempo, mi insegnò subito molto. Ero piccola: questa esperienza mi ha dato immediatamente una distanza da quello che succede attorno a questo lavoro…
Capii già allora che chiunque può entrare in sala e giudicare: a prescindere da chi sia abilitato a farlo. È stato surreale sentirne dire che era una schifezza e poi un capolavoro (ripeto: dalle stesse persone). Sono diventata immediatamente poco dipendente dal giudizio: stroncatura o esaltazione. In questo mestiere, da un momento all’altro, tutto cambia. Alla fine di ogni lavoro torni a casa, fai i conti con te stesso e ricominci daccapo ».
Per te il film “vero” resta la versione integrale o la più fortunata “tagliata”?
«Per l’attore il film è esattamente quello che si è girato. Ciò che esce in sala è reinterpretato attraverso il montaggio.
La versione integrale del film in fondo dava delle spiegazioni: c’è il perché i protagonisti si perdono. Ma forse questo “perché” non è così necessario… Può prendere il volto di Philippe Noiret che non consegna quel messaggio, o il giovane Salvatore che copre il messaggio con la mano inavvertitamente… È la vita che è fatta così… »
Tutt’altra stagione rispetto agli inizi, sarà stata quella televisiva. Era l’epoca dei primi esperimenti di fiction italiane, i primi anni ‘90…
«Io ho saltato completamente la generazione dei registi della mia generazione. Ho lavorato con registi di stagioni precedenti e successive, ma non della mia. Credo che il successo straordinario di Tornatore un po’ io lo abbia subito. Nessuna lamentela, in questo. Ma dopo Nuovo Cinema Paradiso ho sentito il peso di questo successo. Forse l’invidia, che è del tutto umana, dei registi della stessa generazione di Tornatore.
Il mio percorso è stato di fatto particolare: prima Cannes, poi un film che vinse l’Oscar…
All’inizio, quando mi chiesero di interpretare “Edera” in quella serie televisiva, avevo detto di no. Doveva interpretarlo un’attrice americana che poi non lo fece più. Io ero incuriosita da questo esperimento… E poi avevo voglia di lavorare con quel regista, Fabrizio Costa. Era tutto così diverso… Telecamere giganti con le manopole, il regista lontanissimo dal set, circondato da monitor. Venendo da un cinema stracurato, mi sono vista un po’ sola con me stessa, senza il regista che ti curava immagine per immagine. Era molto più teatrale, come esperienza: finché non finiva questa “cassettona” di venti minuti: un’eternità! Mi è servito tanto.
Tra un ciak e l’altro avevo i libri di veterinaria e studiavo. Io sono cresciuta in una casa senza un televisore piena di libri, e piena di fratelli…
L’istruzione era fondamentale. Eppure non sono stata disapprovata per la mia scelta: l’unicità di ciascun figlio è sempre stata rispettata».
Neanche un po’ di preoccupazione?
«Certo che sì… Un po’ di preoccupazione è del tutto normale. Al di là di quello che immagina la gente, l’attore non sta assolutamente in una torre dorata circondata da lussi. Si parla tanto di precari, e l’attore è il precario per eccellenza. Niente copertura nel caso d’infortunio. Pochissimi arrivano effettivamente alla pensione. Poi, arrivati a 40-45 anni, è complicato trovare un lavoro, per le donne soprattutto. È ovvio che questa mancanza di stabilità preoccupi un po’ la famiglia.
Io in realtà ne ho fatta poca di televisione, ma quella che ho fatto ha avuto un seguito pazzesco».
Appunto. Che significa la popolarità televisiva che arriva così di colpo? (Fenomeno attualissimo, tra l’altro, espanso da una serie di format nuovi che hanno poco a che vedere col tuo lavoro…).
«Ci sono state due ondate di incredibile popolarità, per me. La prima volta mi ha fatto sentire “invasa”… e spaventata, anche. Praticamente fuggivo, fuggivo da un vagone di gente sulla metro pronta all’assalto, per intenderci. Poi ho capito che più scappi più ti si corre dietro. Se resti fermo puoi anche parlare con l’altro, senza farti invadere.
Ho scoperto la bellezza di questo mestiere: il mestiere di un artigiano, la creatività che gli è richiesta. È fondamentale parlare col pubblico per capire cosa è arrivato. Dopo dieci anni da “Edera”… ben dieci anni, con “Incantesimo”, è arrivata la seconda stagione. Poi, io sono molto divertita anche dalle critiche. Soprattutto quelle della gente comune. “Incantesimo” era seguitissimo anche dagli uomini! (ride, nda). Comunque, alla fine ho abbandonato anche questo progetto perché non mi diverte stare ferma su un personaggio soltanto».
Nel 2006, Il mio miglior nemico di Carlo Verdone.
«Quell’anno ero impegnata a teatro con Gabriele Lavia (Chi ha paura di Virginia Woolf) e non ho vissuto molto la stagione della proiezione cinematografica. Ma è stato divertentissimo: il primo personaggio davvero comico che ho interpretato… »
Le prime parolacce sullo schermo, anche?
«No, quelle (ma molto più pesanti) le avevo già dette a Ricky Tognazzi nei panni di un’altra moglie indemoniata».
Secondo te che momento è, questo, per il cinema italiano?
«Sono stata ad Annecy (a un festival di cinema italiano). Il cinema italiano è così: pochi soldi, tantissimi problemi, ma quando il film è un buon film è nettamente superiore a qualsiasi film europeo. In Italia non c’è amore per la cultura. Non stiamo vivendo un buon momento: chi dovrebbe far crescere la cultura sembra non capire. Penso che forse sia molto più facile gestire persone che non sanno: lo spirito critico è sempre più addormentato ed è un problema generale che viene da molto lontano… Sembrava fantascienza poter rimpiangere le politiche culturali di qualche anno fa, e invece siamo costretti a farlo…
La cosa più potente del cinema è l’immagine, e il suo movimento: questo è il respiro del cinema e bisogna saperlo fare.
In passato, molti registi italiani non hanno sfruttato bene questa prerogativa. Ma quando produciamo un buon film noi, non c’è paragone. All’estero ci stimano: c’è considerazione per quello che facciamo.
Vincere, di Bellocchio, è bellissimo; il film di Piccioni è bellissimo… Baarìa ancora non l’ho visto… ma di Tornatore ho apprezzato moltissimo Una pura formalità e La sconosciuta, oltre a Il Camorrista (e naturalmente Nuovo Cinema Paradiso)».
A vent’anni da quel principio, se ti chiedessero quali sono state le critiche più costruttive e i complimenti più gratificanti che ricordi?
«Beh… all’inizio non avevo scelto questo mestiere: non avevo programmato, non avevo studiato per farlo e mi sentivo spaventatissima. Mi sentivo quasi come se stessi usurpando qualcosa che forse non mi apparteneva.
Ero terrorizzata, sul set, per la scena che dovevo girare con Noiret. Tremavo. Lui era il “grande” Philippe Noiret. Avevo passato l’adolescenza tra i cineclub di Roma… e lui era un mito. Mi chiese: “Ma che c’è?”, vedendomi tremare così tanto. Gli risposi che mi sentivo spaventata perché non avevo una vera formazione. Allora mi disse: “Qualsiasi scuola ti può dare delle cose, sì, ma nessuna scuola è come questa. È qui che si impara. Quindi recitiamo.”
Mi dava la battuta in francese e le ultime quattro parole in italiano. Meraviglia.
Dopodiché non so più per quanti progetti ho lavorato gratuitamente, perché non mi sentivo abbastanza preparata» (ride, nda).
Questa quindi è stata la tua (auto)critica più importante. E l’apprezzamento?
«I complimenti mi imbarazzano. Sono davvero timida! Frequentemente mi dicono: “Sei più bella dal vivo che in televisione”, o che sembro più giovane… E poi ci sarà sempre “Elena”. L’icona dell’amore perso: un’icona transculturale. A me arrivano email dal Giappone o da paesi che non ho mai sentito in vita mia. O magari gli uomini mi riconoscono e arrossiscono perché ritrovano quel personaggio… »
… e quello che significa. Che rapporto hai tu con un’icona simile? Con l’idea della felicità perfetta e fugace, con l’eventuale, rimpianto, magari…
«Ci sono cose che potevo fare diversamente. Chissà, alcune scelte che ho fatto non sono state produttive, nella vita in generale e non solo nella professione. Ma devo dire che non ho rimpianti veri e propri.
Io sono che pensa molto e al contempo è molto istintiva. Se stai a contatto coi tuoi sogni e i tuoi bi-sogni, lo sai dove devi andare… Di fronte a una scelta, io tendo a “scomporre” le situazioni che mi vengono presentate. Dalla mia formazione familiare, ho imparato che le cose hanno almeno nove punti di vista (sei fratelli, madre e padre). Tendo ad utilizzare tutti gli occhi che amo, analizzo il più possibile. Ma alla fine la scelta sarà quella che avrei fatto istintivamente. E francamente no, alla fine non ho rimpianti».
Un rapporto abbastanza intimo con te stessa. Come va invece coi “caratteri” che porti a teatro o al cinema?
«Beh, mi capita di leggere moltissimo, per preparare caratteri diversi da me. Di recente c’è stato un personaggio in tv, per una serie (“I liceali”, nda) in cui interpreto una madre con una forte instabilità psicologica, una madre che possiamo definire “bipolare”, ho dovuto anzitutto capire a fondo cosa sia una personalità bipolare. O per il ruolo di Chi ha paura di Virginia Woolf a teatro, il personaggio soffriva di disturbi alimentari… Quindi ho dovuto capire di cosa trattasse, non avendone mai sofferto. Ho letto anche un bel po’ di libri di psicologia».
Il teatro sembra regalare a tutti gli attori che lo fanno dei regali e delle sensazioni che non hanno a che vedere col resto dei format. Tu che esperienza hai?
«Il teatro è sano. Non ci sono filtri. È una delle poche esperienze in cui davvero senti il tempo. Hai la sensazione anche di poter morire. Per come funziona il nostro cervello… A teatro hai l’esperienza del presente come da nessun’altra parte. Nelle lunghe serialità in televisione, per esempio, si perde un po’ di contatto con la realtà: lavori ogni giorno, ti vengono a prendere all’alba e smonti la sera.
A teatro, capisci esattamente dove sei, e devi essere “onesto”. Se non lo sei, ti “tanano” immediatamente. A teatro non si rifà niente. Lo ripeto: è sano, e lo consiglio a tutti quelli che vogliono fare gli attori».