Oggi ripropongo la storia – che scrissi per Tu Style l’anno scorso – della cara e bellissima Gabriela.
Ho piantato un mare di orchidee. Forse non sono così tante, nel mio piccolo orto, ma sono colorate e silenziose, fragili e bellissime. Lavoro la terra con passione, l’ho imparato da bambina, con mia nonna. Eppure ho una vita frenetica: il cellulare che squilla spesso. E mica un cellulare qualsiasi. Una volta era il suo cellulare. Gli avevo chiesto di regalarmelo almeno per il mio compleanno; non un telefonino simile al suo, ma proprio quello che lui aveva tenuto all’orecchio, sul quale aveva respirato, aveva scritto, si era arrabbiato, qualche volta. Magari proprio con me, quando vivevamo insieme.
Rubens era stato l’unico ragazzo italiano cui avevo permesso di avvicinarmi. Vivevo in Calabria da un anno: io, la ragazza dell’Est che studia psicologia nel suo Paese, ma vive una lunga avventura lontana dalla famiglia. Io, «la rumena». Avevo vent’anni, il giorno in cui ho lasciato il mio Paese. Era quasi il Natale del 2005. Una decisione presa senza pensare troppo, come faccio tutto. Perché io, che non sono riuscita a diventare un poliziotto come volevo, certo sono diversa dalle mie amiche in una cosa: la paura non so che cosa sia.
In Calabria c’era già un gruppo di amici, e soprattutto mia zia: è lei che, otto anni fa, mi ha trovato un piccolo alloggio e un lavoro, tutti e due sotto lo stesso tetto, per assistere giorno e notte una vecchina. Salita sull’autobus, ci ho messo tre giorni per arrivare a Roma e in quelle notti dormivo accucciata sul sedile. Lascio le pianure innevate dell’Est, tuffo gli occhi nel mare. Mio fratello ha fatto il muratore in altri posti: ha visto la Grecia e la Spagna, ma l’Italia è stupenda, non sa cosa si è perso.
Emigrare in Italia era una moda, e persino fare la badante sembrava una bella sfida. Ma quest’avventura si è conclusa presto e male. Il primo Natale in Italia, è vuoto, triste e da dimenticare. Mi trovo perciò un’altra casa, piccola e scomoda, e comincio a fare la cameriera. «Attenta agli uomini» dicono tutti. Ed è proprio vero se ci provano! Regalano ricariche telefoniche che nessuno gli ha chiesto, la loro lusinga parte sempre dal portafogli, almeno con molte ragazze che conosco. Perché veniamo da un Paese povero e lontano, ci prestiamo a lavori umili che non vuol fare nessuno. Sedurre è una scorciatoia invogliante per tante. Ma con me, una telefonata e una macchina parcheggiata nel cuore della notte sotto casa mia – è un signore anziano, regolarmente ammogliato – basta a farmi capire come funziona. Non devo dar confidenza a nessuno, non devo mai mostrarmi in difficoltà. Ecco perché non accetto neanche un passaggio in macchina: neanche se piove a dirotto, ho la febbre alta, e mi aspettano quattro chilometri a piedi per tornare a casa. E se discuto con qualcuno – perché certo non mi faccio mettere i piedi in testa – mi sento insultare, mi sento dire «tornatene a casa, al tuo paese». Perché per tanta gente, soprattutto per le donne, io sono arrivata qui per delinquere o prostituirmi.
Poi, arriva il giorno che mi batte forte il cuore. Rubens ha 24 anni, è moro, con due occhi intensi e una dolcezza che fanno crollare le difese alla ragazza-soldato che sono diventata… Italiano, vive a Paola, come me ha viaggiato, e adora i serpenti e le moto. Lavora in un negozio di elettrodomestici ed è un mago del computer. Il suo sorriso di bambino butta giù il muro nel quale mi sono isolata, ed è l’unica persona a cui permetto di accudirmi. Lui m’insegna a scrivere nella sua lingua, mi dà consigli, mi accompagna ovunque. Amiamo entrambi le emozioni forti e la vita «sanamente spericolata». Dopo due anni, decidiamo di vivere insieme. A mia nonna, in Romania, non lo dico: è il primo segreto della mia vita. Ma è stupendo.
È il 2008. Ogni sei mesi torno in Romania per l’università. Ma due caratteri forti, come il mio e quello di Rubens, sono destinati a scontrarsi. Litighiamo sempre più spesso. È l’amore per lui a dimostrarmi che in fondo sono insicura, fragile, gelosa. E anche lui è una persona istintiva, forse ancora priva dell’esperienza per costruire la famiglia che vogliamo. In più, il lavoro mi spossa, le energie vengono meno, e non mi sento integrata. Mi sembra di stare sulle montagne russe. A un certo punto, io e Rubens ci lasciamo definitivamente; e io decido di lasciare anche l’Italia. Tutto il Paese mi ricorderebbe lui, il senso di rifiuto del quale mi sento vittima in questo momento. Torno a casa, mi laureo con successo, mi riprometto di rifarmi una vita. Col cellulare di Rubens in valigia, si capisce.
È pur vero che in Romania, nel mio paesino d’origine, sono quasi idolatrata. La ragazza coraggiosa, bella e androgina, che si è fatta rispettare da tutti, è diventata, in qualche modo, il capofamiglia. Addirittura posso dare consigli sul lavoro a mio padre, ai miei fratelli. Ma io penso sempre a Rubens. Alla frase che ci siamo detti lasciandoci: «Affidiamoci al destino. Se il destino vorrà, torneremo insieme». E una cosa è certa: io voglio tornare con lui.
Impugno il volante della mia macchina, piena di valige nel bagagliaio. Torno in Calabria. A Fuscaldo, trovo una casa a duecento metri da quella di Rubens, dalla nostra casa da innamorati. Tutte le sere lo vedo sfrecciare con la moto sotto il mio balcone. Qualcosa mi dice che neanche per lui è finita.
Ma il tempo passa. La paura di soffrire è troppa. Nessuno dei due fa un passo concreto verso l’altro. E io sono costretta a trasferirmi e cambiare lavoro molte volte. Babysitter, badante, commessa, basta che mi muova. Smonto e sgrasso i vetri dei negozi, anche quando non mi è richiesto. Adoro stancarmi. Vendo anche frutta e verdura la mattina presto, al mercato. E nel frattempo, nella speranza di dimenticare il primo amore, mi creo un altro legame. Ma con questo ragazzo non funziona. Perché mi manca il coraggio di afferrare quel cellulare, il cellulare di Rubens, e dirgli la verità?
Una notte – è la notte di San Lorenzo, due anni fa – un’amica mi chiama con la voce strozzata dal pianto. Rubens ha avuto un brutto incidente in moto tornando a casa dal lavoro. Sono pietrificata: mai nella vita ho provato una paura e un dolore simili. Corro a casa sua, guidata da una voce nella mente, che non mi lascia scampo. Lui è lì. Non faccio neanche in tempo a vedere un dettaglio di stoffa che si sporge dalla stanza in cui lui riposa, senza vita. La ragione di tutte le mie scelte è lì, che dorme per sempre. Non ho il coraggio di guardarla. Corro via.
Il giorno seguente, il cellulare che lui mi aveva regalato non funziona. Mi rende irraggiungibile. Non è mai accaduto e non accadrà mai più. In tanti anni che lo utilizzo, quella sola volta ho assistito a una «fatalità» così tenera e incredibile.
Lui è sempre con me, anche se devo parlargli diversamente. Faccio sempre mille lavori e non me ne accorgo. Anche nei ricordi più dolorosi, mi dico, c’è occasione di stringere forte la gioia e la speranza che le cose più belle, in modo tutto nuovo, tornino. Sulla targa della mia macchina c’è scritto «Romania», e non mi spaventa che questo crei pregiudizi. Le mie radici le porto su quelle ruote. È anche grazie a loro che, di nuovo, non ho paura di nulla. E al mattino, affacciata sulle orchidee, spalanco gli occhi e sorrido.