Quelle interviste in bilico tra cronaca e cultura, e quella nuance della “storia del costume” che dal nero pesto si sposta verso più umane sfumature, o perlomeno le interroga: qualche volta può solo cercarle. “Costume” del resto è anche “costume di vita”, strada battuta tra le infinite possibili che attraversano il Bene e il Male.
Ecco perché la mia intervista a Franca Leosini (2016) resta per me un’esperienza di privilegio e profondo significato. Su F, a occuparmi di… noir.

È la signora del noir da almeno trent’anni. Una voce e una cifra narrativa tutte sue, un modo di raccontare che sembra scucito dalla letteratura. E le sue “Storie maledette”, i suoi tête-à-tête su Rai Tre con gli autori di delitti feroci, pagine di cronaca che hanno marcato la storia del nostro Paese, sbarcano adesso in prima serata. Per la prima volta dal 1994. Franca Leosini odia il termine «femminicidio», disprezza le generalizzazioni, è allergica al concetto di «normalità». E le sue storie, dice, «sono in fondo storie di una quotidianità come quella di tutti, infranta da un gesto criminale, ma mai commesso da professionisti del crimine. I professionisti del crimine proprio non mi interessano».
Si ricorda la prima donna, la prima autrice di un delitto di sesso femminile, che scelse di conoscere meglio?
«Certo. Si chiamava Rosalia Quartararo: all’epoca aveva solo 39 anni ed era stata condannata all’ergastolo per l’omicidio di sua figlia, di 19 anni: era innamorata del fidanzato di questa povera ragazza. Ma di donne colpevoli di crimini ne ho conosciute molte. Anche nella serie che andrà in onda tra poche settimane ci saranno donne dalle storie molto importanti. Sarà una serie fortissima».
Il delitto commesso da una mano femminile può avere, secondo lei, delle caratteristiche che dipendono dal suo genere? Delle piccole prerogative rispetto a quando a uccidere è un uomo?
«Quando una donna si rende responsabile di un gesto estremo, ha certamente una psicologia più complessa e qualche volta più interessante: perché la natura di una donna è quella di dare la vita, non toglierla. E spesso la donna è il mandante di un delitto, non la mano armata».
Quando una pagina di cronaca è, secondo lei, una “storia maledetta”?
«I crimini commessi in un Paese segnano spesso un’epoca, ma sono anche figli della loro cultura geografica. Il delitto di Erba, tanto per fare un esempio, non sarebbe mai potuto avvenire a Napoli, terra in cui vige la cultura del “basso” della reciprocità, della condivisione di tutto; e così pure la morte di genitori per mano dei figli. Viceversa, una storia di cui mi occupai anni fa, a San Severo di Puglia, non poteva che avvenire al Sud: una piccola martire appena adolescente, segregata in un casolare e uccisa da un cugino di trent’anni che voleva comprometterla. Un crimine può raccontare molto del suo territorio».
Non sempre, però, lei intervista degli assassini. Appena nella scorsa edizione ha incontrato Alessandra Bernaroli, la cui storia è identica alla trama del film The Danish Girl, al cinema a febbraio e già campione di applausi a Venezia…
«“Sono la moglie di mia moglie” era il titolo della mia puntata. È proprio la storia di “The Danish girl”. Alessandra Bernaroli ha cambiato sesso: prima era un ragazzone di nome Alessandro, e aveva sposato la donna che amava. Diventato donna, si è battuto in tribunale per restare sposato con lei. E ce l’ha fatta».
Perché decise di raccontare questo caso?
«Era la prima volta che sul piano giudiziario e giuridico si poneva una situazione del genere. Io sono sempre stata molto sensibile alle storie della cosiddetta “diversità”».
Che stati d’animo le lasciano le sue lunghe interviste, nelle quali lei ha sempre una proverbiale presenza di spirito e un apparente distacco?
«Le storie mi attraversano. Quella forma di distacco che mantengo non somiglia affatto al mio stato d’animo. Sono un po’ come il chirurgo di fronte al tavolo operatorio: bisogna mantenere i nervi saldi anche quando le emozioni sono fortissime. Dopo l’intervista con Mary Patrizio, giovane mamma che uccise il suo bambino, scoppiai a piangere a dirotto. E fu proprio lei a confortare me».
Altro elemento che fa di Franca Leosini una icona dei social network è l’inconsueta ironia con cui affronta le sue storie.
«Vero. A un noto professionista, accusato dell’omicidio di sua moglie, una volta domandai: “Mi scusi, ma lei, all’epoca della morte di sua moglie, aveva un’amante?”. Lui si irrigidì, era davvero stizzito: il termine “amante” lo aveva seccato. Lo tranquillizzai: “Guardi che avere un’amante non fa di un uomo un assassino. In certi casi, tutt’al più, può farne… uno stronzo”. Su Twitter esplose immediatamente un divertito delirio di commenti. L’ironia è indispensabile, purché non si manchi di rispetto a nessuno».
L’approccio particolare che lei ha con le storie maledette discende, secondo lei, anche dal suo essere donna?
«Noi donne abbiamo una capacità introspettiva un po’ più alta degli uomini. Non sono affatto una femminista, ma questa marcia in più ci va riconosciuta».
Ricorda come nacque il format della sua trasmissione?
«Io vengo dalla carta stampata. Ho sempre pensato che per saper parlare in televisione anzitutto occorra saper scrivere. “Telefono giallo” fu la prima trasmissione a portare il noir in tv: conduceva Corrado Augias, ma gli autori delle inchieste erano dei giornalisti scelti con rigore dalla Rai. E io fui chiamata per una di quelle inchieste. Il delitto Grimaldi, 1985, che io avevo commentato per Il Tempo. Fu la prima di molte mie inchieste per quella trasmissione: e, mentre curavo questo lavoro, mi rendevo sempre più conto di essere interessata ai perché, alle ragioni che avevano spinto una persona a commettere quel delitto. Mi rivolsi al direttore di Rai Tre, gli proposi il format di “Storie maledette”, e lui ne fu entusiasta».
Qual è il punto di forza che non è mai invecchiato, del suo programma?
«La verità. Non concorderei mai nemmeno una piccola domanda per il nostro colloquio. Le racconto un dettaglio. Riguarda uno dei casi di cronaca che hanno fatto storia, il delitto del “Nano di Termini”. Nel corso di un colloquio preliminare alla trasmissione, di fronte al ragazzo che avrei poi intervistato mi sorse spontanea una domanda: “Come sarebbe finita questa storia se lei non avesse ucciso quell’uomo?”, e lui rispose: “Quell’uomo avrebbe ucciso me”. Questa risposta mi parve così importante che, in via del tutto eccezionale, lo avvertii: avrei potuto fargli quella stessa domanda davanti alle telecamere. E gliela feci. Ma stavolta la sua risposta non fu spontanea, sembrava recitata. La tagliai al montaggio».
È vero che spesso i suoi intervistati ci tengono a raccontarsi a lei anche per una sorta di “restauro d’immagine” nell’opinione pubblica?
«Assolutamente sì. E io cerco sempre di capirli, senza giudizio né pregiudizio: ecco perché spesso finiscono col dire a me cose che non hanno detto durante il processo. Ma, con molto garbo, con molta attenzione, devo anche saper girare il coltello nella piaga: ho grande rispetto di queste persone, ma non risparmio loro nulla».
Lascio qui anche un piccolo, brevissimo (rispetto a una conversazione di quasi tre ore) audio dell’intervista. Ironico, brillante, e quanto mai personale.