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di Margherita Bottaro

Torna in mente una canzone dei Texas, “Say what you want”. Il celebre brano che recitava quel “Puoi dire quello che ti pare, ma non cambierà ciò che provo per te”. Sulla riva di un “mare in tempesta” (che riproponiamo proprio tra virgolette perché, più avanti, sarà lo stesso “mare in tempesta” dei versi di una poesia che la protagonista recita a memoria), Filippo svela a Diana un terribile segreto sulla famiglia di lei. Filippo è crudele, è un dannato, un archetipo della frustrazione maschile a quell’età in cui si è fragili e feroci, anche pretestuosamente e con ragioni paradossali. Frecce infuocate che però lasciano segni eterni. Diana, diciotto anni e una vita tutta racchiusa nei suoi sogni, sulla battigia di quel mare furente, incassa. E continua ad amare.

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È allora, Diana, 1999, la storia d’amore tra due giovani (diplomanda al liceo classico lei, studente universitario lui) a ridosso del Duemila? È anche questo; forse, è soprattutto questo. Ma, a noi, sembra più un coro di anime solitarie che cercano attraverso l’amore non solo la propria identità, ma soprattutto uno specchio efficace in cui vederla riflessa. Come Diana, figlia naturale di una ricca famiglia romana, cresciuta all’ombra della sorella adottiva, afroamericana, esotica e irresistibile, “Filippo dagli occhi blu” ha trascorso i suoi vent’anni ad adorare il suo fratello gemello, omosessuale e tossicodipendente, ma che sembra difendersi dalle intemperie della vita con più carisma di lui.

Una storia di integrazione? Questo singolare, apparentemente leggero, e invece polisemico e originale romanzo a fumetti, non è neppure questo. Khady, la bella “sirena afroamericana” piena di musica che, nella Roma di fine millennio, sbaraglia la concorrenza quanto a seduzione e capacità di conquistare cose e persone, è più che integrata, e lo è in un contesto imparagonabile ai tempi di oggi. Tempi in cui il tema è bollente e trattare il suo personaggio con una tale trasparenza sarebbe più complicato. Perché non c’è nulla di ideologico nell’amore tra due sorelle. È solo, in fondo, l’amore tra due sorelle. Una delle due succhia magneticamente tutto lo spazio che ha a disposizione: sembra non accorgersi che ne sta sottraendo all’altra, forse ne è anche colpevole, in qualche modo, ma vive il suo sano egocentrismo con la stessa spontaneità che dedica alle confidenze e alle premure verso una sorella sempre defilata e introversa. Diana è così: il suo (non sano) egocentrismo se lo tiene dentro, lo soffoca, compie perfino il presuntuoso tentativo di farne un capolavoro: i suoi traumi sessuali le impediscono di vivere le gioie dell’amore, allora se le inventerà scrivendole, e diventando la Anaïs Nin del Terzo Millennio.

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Chi ha amato il romanzo (Gli arpeggi delle mammole di Simonetta Caminiti, che sarà ripubblicato nella prossima primavera) soffrirà la nostalgia delle sue lunghe e melodiose descrizioni. Ma Diana, 1999 (graphic novel pubblicata da La Ruota, sceneggiata dalla stessa Caminiti e disegnata da Letizia Cadonici) ricompenserà il lettore con altra poesia: le illustrazioni, i magnifici colori che immergono la storia in una perenne tavolozza di acquerelli. Inquietudine e quiete stessa, come il gioco degli specchi del quale parlavamo a proposito degli innamoramenti: Diana e Filippo, Khady e il suo Mino, Mino che ha un occhio di vetro ma sembra non conoscere altro ardore che quello per la vita, per il bel corpo e la splendida anima della sua fidanzata, e nessun’altra menomazione che dover stare lontano da lei.

Un romanzo a fumetti denso, che percorre a passo sveltissimo spunti di riflessione, suggestioni e citazioni cari a chiunque abbia vissuto prima dei social. Un esperimento coraggioso, che appaga lo sguardo e si ferma nel cuore.

7

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