Qui, qualche racconto tratto dalla mia antologia Specie meno note di sirene

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LA MASCHERA DI ALCYONE

 

Hai trovato la morte lì, Alcyone. Tra quel ciuffo di papaveri reclini e la terra nera di pioggia. Non so nemmeno cosa significhi, “Alcyone”; l’ho visto scritto sul libro della padrona e così t’ho chiamato. Eri un pulcino, stavi nella mia mano. Ti parlavo spesso delle mie noie e non ti ho mai taciuto che presto o tardi avrei dovuto fare la festa anche a te. Tra tutti sei diventato il più grosso e il più chiassoso. Abbiamo rimandato la tua ultima aurora, il grido strisciato e sanguinolento, il tuo ultimo canto addolorato, di qualche settimana.
Le piume si sono librate nello scirocco, i pori della tua pelle li ho visti sporgere rosei e fieri tra le linee polpose del ventre e le cosce immobili. Senza più un filo di vita. Il tuo volto giaceva come una maschera di carta imporporata dal sangue: la cresta simile a una corona, il becco schiuso senza fiato. «Vecchio Alcyone, ho obbedito anche quando è arrivato il tuo turno», ti ho detto mentre, morto, mi guardavi fissa con gli occhi di un serpente innamorato.
Non un gallo ma un tacchino, ha precisato la padrona quando ti ha servito. Il petto sottile divenuto bianco come una luna tagliata a fette. Il fegato ridotto a una poltiglia di rubini macilenti. Le cosce grasse avvolte di pelle, tuffate in quell’olio di rame, a schioccare come vita ancora viva che corre sulle braci. Ti hanno vinto. Mi hanno costretta a finirti con una lama che, nell’alba, scintillava ancora di stelle. Sottile come una strada che segna il confine. Fendente e spietata abbastanza da ordinarti di non tornare.
A me hanno lasciato il tuo collo, Alcyone. Il collo, che per primo ti ha dato la morte, che ho tirato forte tra le mani come una fune. Nella padella antica, è divenuto un’ossuta caramella pregna di sangue nero, come la terra nell’aurora di pioggia. Alto e sfinito come il collo dei papaveri. La tua vita è diventata una caramella unta tra abbaglianti schegge d’aglio.
Oh, Alcyone! Solo io e te lo sappiamo. Troppi erano i nostri segreti per non condividere questo. Che quella notte ho derubato un tacchino e l’ho spacciato per te. E che tu vivi, tacchino, razzolante per i giardini di mia madre. Unico abitante di quella piccola, infinita, casa di memoria.
Tu che mi hai vista ridere, amare di nascosto al mondo, odiare di un odio soffocato, seppellire gioie e uomini, raccogliere i frutti di una terra cui sono rimasta imbrigliata dal mio stesso ombelico. Spaventata dalla certezza di poter fuggire e di essa, essa soltanto, prigioniera. Tu, maschera discreta all’ombra degli ulivi; amico pacioso e fetente che ha rubato la voce alle cornacchie. Tu, che con la tua babilonia, hai occultato il rumore del mio pianto e della mia felicità. Complice, con le tue zampe molli simili a radici di magnolia, di tutto ciò che mi è stato negato, e che con le unghie, di soppiatto, per quattro primavere, ho rapito nel mio silenzio. Non ti avrei torto una piuma.
Che buono era il collo anonimo della mia refurtiva pennuta. Sapeva di carne ruspante e prezzemolo dell’orto. Sguazzava, imprecando una pietà che mi ha trovata sorda e cieca, nell’olio verde senza ossigeno. Erano tocchi di carne morta sulla quale ho spruzzato buon vino. La casa intera si è colmata del suo profumo acidulo. I padroni e finanche il cielo avrebbero potuto dirmi grazie per questa esalazione di lussuria. Quanta, quanta lussuria in quella morte che si scioglie in bocca, adorato Alcyone.
Principe pennuto troppo caro alla mia spada.

 

LA CIMINIERA

 

Trafelata, marcia di sudore e piena di valigie: il mio trolley pesa un quintale, dannazione a quando ho deciso di non fidarmi di lui, lui che mi aspetta a Bologna, e ho infilato in quel trolley anche il mio portatile di piombo.

E dannazione alla calura di colla che si respira oggi alla stazione di Napoli.

Corro verso il Frecciarossa al binario diciannove. Posso farcela a salire presto e sedermi in pace, affannando, se non altro, con le gambe a riposo e la bottiglia d’acqua ancora freschina. Potrei farcela, ma, mentre sto salendo sul treno, un ragazzino mi spintona.

Non è un accidente momentaneo: lo fa almeno un paio di volte, e sua madre sembra non accorgersi che sta sgomitando in modo tanto maleducato fra i bagagli di questa giovane donna mingherlina, evidentemente in difficoltà. Gli dice solo: “Sì sì, vai a cercare i posti”. Mi volto per curiosare nelle fisionomie di questa famigliola: il ragazzino avrà dieci anni, è grasso e ha due occhi scuri incredibilmente rotondi. Sua madre era quella lì, quella che poco prima, nel tragitto verso il treno, avevo ritenuto una strana gitana di provenienza slava, e obesa.

Invece no. Ha l’accento del Nord, è italianissima, è… una persona qualsiasi sul treno. Me ne accorgo quando – con fastidio – vedo lei e i due figli sbucare dall’altra entrata della mia stessa carrozza: erano sgusciati, dopo avermi assaltata, perché si erano accorti che “dall’altra parte facciamo prima”.

Il mio posto è il sessantadue; quello del ragazzino grasso sarà il sessantaquattro.

Gli siede accanto il fratellino, sei, sette anni: molto somigliante a lui, ma ancora pesoforma. Sono piuttosto bruni. La madre ha i capelli castano-chiari, resi opachi dallo sporco che forse spera di occultare un po’ con la coda di cavallo. Ha gli occhi azzurrognoli, e un viso che mi ricorda quello di Drew Barrimore, ma gonfio come un pallone. Sì, in piedi è tra le donne più grosse che abbia mai visto, ma, poverina, “deve avere un problema di salute”.

 

I bimbetti sono indisciplinati. Al più piccolo devo dire subito: “Tesoro, non mettere i piedini sulla mia borsa, ti prego”.

Litigano sonoramente con la madre per tutto il tempo. Mi deconcentrano: sto cercando di mandare giù in libro in un inglese troppo ricercato per la fine di agosto.

Ed io non ho un buon rapporto coi bimbi grassi: lo fui, e questo sancì la fine del mio folle amore per me stessa, quando cominciai a desiderare di essere amata da tutti. Così, più sono disturbata da quei ragazzini, più odio il primogenito e quella selvaggia di sua madre.

Cerco pure lo sguardo complice della mia dirimpettaia: una graziosa, raffinata ragazza con la borsa di Louis Vuitton contraffatta sulle gambe. Ma è algida e non mi ricambia.

L’acme del mio sdegno, in questo pomeriggio di impazienza focosa, arriva quando il bimbo ciccione mi versa dell’acqua addosso. “Eccheccazzo!” vorrei sbottare. Mi limito a un severo: “Nooooo!”, che fa intervenire la sua mamma. E la zia. E l’altra zia. Sì, perché a bordo sono salite pure due prozie di questi impossibili pargoletti.

Ma il ciccione tace mortificato. Vorrebbe chiedermi scusa; è troppo orgoglioso per farlo. Gli basteranno – è evidente – i cazziatoni imbastiti di turpiloquio con cui la mammona e le prozie, col loro accento meticcio, lo stanno annaffiando già da un po’.

Le mie pillole di “S.O.S. Tata”, che tanto hanno messo in discussione l’educazione che io stessa ricevetti nell’infanzia, mi basterebbero a placare le acque. Mi trasformo per pochi secondi di fantasia (solo nella mia mente) in Tata Francesca. Sì: scuoterei la testa dolcemente, e direi a quella madre: “Non si pronunciano parolacce davanti ai ragazzi, signora.” E: “Niente più cibo spazzatura”. Ma su quest’ultimo punto, la mamma grassona sembra ben informata: ha già insultato il primogenito un paio di volte, per la sua smania di tenere “la bocca in movimento”. E le vocali chiuse mi hanno ricordato la Tata Francesca. Peccato che in effetti l’altalena di quiete e concitazione, nei toni della grassona, sia troppo vertiginosa. Poveri ragazzi e basta, mi dico.

Le botte non tardano. In effetti, le battute del mio libro mi sottraggono a una parte cruciale dello show: devono aver fatto qualcosa di brutto, i bimbi, perché stanno volando ceffoni troppo schioccanti. Il più grande si sforza di piangere per impietosire mamma e zie. La replica è corale: “Non fare la vittima!” o addirittura: “E smettila con le sceneggiate napoletane!”.

Il pensiero di quel poveruomo che deve aver contribuito a mettere al mondo questi figlioli non mi sfiora nemmeno: l’uomo da cui avranno ereditato gli occhi neri, e speriamo qualcosa in più, ché peggio della madre non può essere.

 

Leggo, sì, ma l’orecchio è sempre teso verso questo teatro ambulante. Confesso d’averci preso gusto da un pezzo. Quindi… niente più astio verso i ragazzi.

Il culmine arriva quando mi alzo per andare in bagno. La “signora” è adesso lì davanti, davanti a una porta chiusa, ma che reca il “rettangolino verde”: il bagno dovrebbe essere libero. Faccio per entrare. Lei mi blocca: “No, quello è occupato”, accennando un sorriso. Però io ho fatto in tempo a vedere il secondogenito, lì dentro. Seduto a terra con gli occhioni rossi. Mamma mia. Lo ha messo in castigo in un cesso del treno, seduto sull’urina di chissà chi. Fatemi intervenire, vi prego.

“Signora, le chiedo scusa… Ma il bambino è seduto a terra”.

“Alzati!” gli strilla lei, spalancando la porta e afferrandolo per un braccio. “Alzati e vieni qui!”.

Filo nell’altro bagno, che era libero e non me n’ero neppure accorta. Mi chiudo dentro sperando in quattro secondi di respiro.

Da dietro la porta, sento piangere lei.

“Io non ce la faccio più, non ce la faccio più!… Io mi ammazzo, mi ammazzo!!! Siete già senza papà! Volete restare anche senza mamma?”

Il respiro, adesso, mi viene meno.

E qualcosa mi dice, nella stretta inaspettata che ho allo sterno, che la signora volesse farsi sentire. Che stesse gridando al treno – e certamente a me  – : “Non è tutta colpa mia.”

 

Non la vedo più per un po’. Chissà dov’è andata a riparare.

Io faccio per sedermi, e lo show lo conduce la prozia, con quelle scarpe da ginnastica rosa, la fascia in testa, l’italiano sempre più improbabile, e mille uscite diverse per tenere buoni i piccoli. “Ma dov’è andata tua madre?” domanda al primogenito, con cui è arrabbiatissima “Nella carrozza undici”, risponde lui.

E comincia un’ondata di provocazioni: questo ragazzino è più avvelenato di lei.

I fratellini non hanno fatto che litigare e picchiarsi per tutto il tempo, ma le rispostacce che il maggiore rivolge alla zia divertono il più piccolo, lo fanno ridere a crepapelle: nella ribellione contro di lei, sono uniti e gaudenti.

Poco dopo torna a sedersi sua madre.

I suoi occhi sembrano fatti d’acqua, di un celeste vuoto e lucido, e affiorano tra le linee del viso tondo. Sono persi. Un filo vermiglio, di pianto, li cinge in una ragnatela spessa e viva.

Al dito – osservo – ha la fede d’oro giallo bene in vista: un solitario piccolo piccolo, con un brillantino di memoria.

Quei chiassosi ammassi di lardo mi paiono adesso ciminiere di dolore.

Il baccano che fanno ha la voce della morte, o forse di una vita che vorrebbe ricominciare, ma proprio non sa da dove né come. E mi chiedo da quanto tempo.

La carnalità unta di quella femmina, che prima mi era sembrata una forza bruta, la pelle di una balena, è adesso qualcosa di immensamente tenero, con la voce di una sirena del Nord.

 

La ragazza dirimpetto a me scende a Firenze. Non saluta me, ruvida malgiudicante con quel libro aperto. Schiude un sorriso verso quella famiglia e se ne va. Non può aver sentito le cose che ho sentito io, ma sembra aver perdonato tutto quanto, sembra averlo digerito come un’inoffensiva nota di colore.

Quando arriva il mio turno, la risposta della signora è appena più fredda: non mi guarda negli occhi, fa una smorfia distante.

 

“Arrivederci”.

 

Simonetta Caminiti, 26.08.2010, Bologna.