Intanto, scopro su Facebook che i 12 settembre di qualche anno fa firmavo graziosità su un paio di bei periodici.


Dopodiché, saltando davvero di palo in frasca, mi concedo uno sproloquietto personale.
Titolo: “La mia amica equilibrista”.
Penso di frequente a una mia amica, in questi giorni. Una donna già provata da sofferenze, nel corso degli anni (pur pochi, almeno gli anni che ha), e che di recente è stata sconquassata da un dolore e da un trauma inimmaginabili. Io, che la conosco bene, so come stanno le cose. Gode degli affetti caldissimi di gente vicina e lontana, ma nulla sazia (com’è comprensibile) la sua voragine: e in questo anno a dir poco surreale, surrealissimi sono stati alcuni suoi incontri. Alcuni disparati (o disperati?) tentativi di tuffarsi nella vita, da parte di costei, incoraggiati da qualche cavaliere dall’armatura lucente… ma pure da qualche amico. “Amico” dall’animo inesorabilmente duale. Persone, insomma, che, con confortevolissima superficialità, hanno visto in lei solo la resilienza fulgente, la Leggerezza professata, diffusa e difesa per non cadere.
Non un verbo a caso, questo. La mia amica, in effetti, cammina sul filo del rasoio. Da un lato, il baratro più nero, dall’altro la forza della vita. Nel suo cuore ci sono le stesse cose: un emisfero di tenebra e uno di dolce e avvolgente fiamma di speranza. È a quella fiamma (che è facile, forse, ridurre a una scintilla con breve emissione di fiato, e anche facilissimo trasformare in cenere) che lei comunque, ostinata, si aggrappa. La vedono fulgente, ripeto, mentre percorre il filo del rasoio celando lo spavento e la fatica; potrebbero, come no, comprendere come stanno le cose davvero. Ma cenere è quello che taluni hanno nel cuore, e così, a un certo punto, pur forse all’improvviso e scossi nell’animo da pretesti di piccola consistenza, vorrebbero vedere il suo: pieno della loro stessa cenere.
Chissà. Sul viale del tramonto, o “nel mezzo del cammin della loro vita”, la donna ha rappresentato una qualche “vibrazione” (non c’interessa sapere di che genere, non ha importanza: e guai a pensare all’accezione più scontata). Ma, quando le vibrazioni non si possiedono, non si flettono come vorremmo noi, un senso di tradimento pervade chi le prova. Che, a questo punto, dà il peggio di sé.
Qualche tacchino vestito di stagnola (e non certo un cavaliere dall’armatura che riluce) ha incontrato la mia amica: promettendole tutto il suo coraggio e invece avido e bisognoso del coraggio di lei. Pazienza. E qualche amico saggio, e qualche amico meno saggio, che si sono fermati, entrambi, alle apparenze. Perché fa sempre comodo a tutti.
La vita le ha insegnato una cosa, però. La felicità non la si inventa: ma cercare strenuamente di essere appagati è un dovere. Un dovere anche verso il sacrificio di chi non c’è più. E dunque, non può esserci odio, mai più, neppure verso chi ha causato dolori nel dolore. L’odio è perdita di tempo che consuma la bellezza. E il tempo è breve, e la bellezza è il senso della vita. Gratitudine, piuttosto, a coloro i quali, con trasversali (e tra loro imparagonabili) orme che lasciano nel percorso della mia amica, le insegnano quanto complessa sia, ancora una volta, la natura umana. E imprevedibile.
(Vi amo come siete, e dico davvero).

(La mia “amica”, ieri, al telefono con qualcuno che la fa sorridere: tanti ce ne sono, ed è per loro che vive e lotta con fierezza).